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Le farine, ottenute da grano importato, sono “made in Italy” se l’ultima trasformazione avviene sul territorio nazionale

La dicitura “made in” è il pomo della discordia che ha animato lo scontro a colpi di comunicati stampa tra Italmopa, l’Associazione Industriali Mugnai d’Italia e Coldiretti, che rappresenta gli agricoltori. Come possono esserci farine “made in Italy” se importiamo grano dall’estero si chiede l’associazione che raggruppa una grossa fetta di aziende agricole? La domanda è legittima, ma non tiene conto delle leggi in materia. In Italia le aziende e i mulini che propongono farina confezionata sugli scaffali dei supermercati non sono obbligati a indicare sulle confezioni l’origine della materia prima, ma devono riportare il nome dello stabilimento che ha effettuato l’ultima trasformazione significativa. “Le farine commercializzate in Italia– afferma Italmopa, nel comunicato stampa del 21 marzo 2017- sono Made in Italy al 100%, anche se contengono frumento importato, perché l’ultima lavorazione avviene sul suolo nazionale”. Una farina prodotta da grano importato ma trasformata in Italia è quindi per legge “italiana al 100%”. Lo stesso vale per la semola di grano duro destinata all’industria della pasta, quando sull’etichetta c’è scritto “made in Italy” ci sono buone probabilità che la materia prima sia in parte importata come abbiamo già evidenziato in articoli precedenti. (Leggine altri)

La quasi totalità della farina commercializzata in Italia è quindi confezionata nel nostro Paese  miscelando grano importato e grano locale. Una parte rilevante  del frumento (tenero e duro) da cui viene prodotta la farina made in Italy non è quindi di origine italiana. La stessa industria molitoria rende noto che le importazioni di grano tenero rappresentano il 60% del fabbisogno.  Anche la quota di  grano duro importato destinato ai pastifici italiani è notevole e raggiunge  circa il 40% del fabbisogno.

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L’industria molitoria italiana necessita del frumento importato sia per ragioni quantitative che qualitative

La maggior parte delle farine utilizzate in Italia nasce dalla lavorazione di frumento importato da paesi dell’Unione Europea (in particolare Francia, Germania e Austria), in alcuni casi dal Canada e dagli Stati Uniti. Nel Piano Cerealicolo del Ministero dell’agricoltura viene riportato anche un altro elemento di debolezza della filiera del grano tenero nostrano: la sua qualità. Secondo il documento quello italiano è un frumento di qualità non eccelsa, per questo viene miscelato con grano importato, generalmente di qualità migliore. Maurizio Monti è un mugnaio e per 8 anni è stato presidente di Antim, l’Associazione Nazionale Tecnici dell’industria Molitoria: “l’industria molitoria italiana, che esporta pasta e farina in tutto il mondo, ha bisogno del frumento importato sia per ragioni quantitative, quello che produciamo è insufficiente, che per ragioni qualitative, per rispondere alle richieste e agli standard dell’industria”. Sono infatti i mugnai, che selezionano, mescolano e macinano i grani in modo da ottenere miscele che soddisfino l’industria della pasta, quella dei dolci e dei prodotti da forno. “Il mugnaio deve conoscere alla perfezione, non solo l’origine del prodotto che lavora – continua Monti – ma deve anche garantire il massimo delle caratteristiche igienico-sanitarie e tecnologiche del grano, scegliendo tra una gamma molto ampia, per venire incontro alle richieste dalla grande industria: più si allarga l’area da cui si prende il frumento più è facile trovare le caratteristiche ricercate”.

Coop propone farina bio da grano di origine 100% italiana e farina di grano tenero 00 con materia prima proveniente da Italia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Romania e Ungheria

Ogni lavorazione della farina e della pasta che compriamo deve essere tracciata. La normativa europea dispone, infatti, la rintracciabilità del prodotto per ogni fase di produzione ma non l’identificazione dell’origine della materia prima. L’industria molitoria è obbligata a risalire al fornitore del grano ma non a conoscere l’agricoltore. Ogni tappa della filiera identifica in modo preciso quella precedente. Questo però non vuol dire che non si possa conoscere l’origine del grano. I contratti di fornitura del frumento duro e tenero spesso prevedono l’indicazione dell’origine del grano anche se, al momento dell’acquisto, a prevalere sono le caratteristiche qualitative della materia prima. Le industrie della pasta, dei dolci e del pane dettagliano le caratteristiche igienico-sanitarie e tecnologiche delle farine, l’origine del grano viene indicata, invece, come preferenza, ma raramente viene inserita nei contratti. La decisione di tracciare, prima, e indicare, poi, l’origine della materia prima sulla confezione del prodotto finale è nelle mani dell’industria e delle sue scelte commerciali.

Dal 2016 il governo sta lavorando a una legge che dovrebbe garantire la tracciabilità delle materie prime anche per pasta e farina che si comprano al supermercato, indicando in etichetta l’origine del grano. Una legge come questa, secondo Maurizio Monti, complicherà i lavoro del mugnaio dal punto di vista meccanico, perché dovrà predisporre etichettature e stampe diverse per ogni produzione. “Questa procedura di trasparenza, di fatto, non aggiunge nulla all’effettiva tracciabilità del prodotto: già oggi il mulino può fornire all’industria l’indicazione di origine, per ogni grano utilizzato”.

I prodotti commercializzati da NaturaSì indicano il più delle volte, l’origine dei grani da filiera 100% italiana, o regionale (Emilia Romagna e Sicilia).

La farina commercializzata in Italia proviene da mulini italiani, ma tra i grandi distributori presi in esame (Esselunga, Iper, Carrefour, Unes, Conad, Penny e Pam) solo Coop, per la sua linea interna, e NaturaSì indicano l’origine del frumento. Tra i prodotti a marchio Coop ci sono farine da grano di origine 100% italiana come la farina da frumento integrale bio e la farina di grano tenero “00”, e farine di frumento tenero da grani che provengono da Italia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Romania e Ungheria. Nel caso dei prodotti commercializzati da NaturaSì sono le stesse marche ad indicare, il più delle volte, l’origine dei grani da filiera 100% italiana, o regionale come nel caso del frumento tenero dall’Emilia Romagna o il grano duro dalla Sicilia. Le farine di grano tenero a marchio NaturaSì vengono dal ferrarese. Anche l’industria della pasta negli ultimi anni ha puntato a creare linee dedicate alla materia prima 100% italiana come Voiello e Granoro.

Oltre ai pastifici anche i mulini hanno creato delle linee di farina e semola provenienti al 100% da grano italiano, facendo dell’origine una dichiarazione da indicare in confezione. Su 54 aziende molitorie prese in esame poco meno della metà, una ventina, prevedono all’interno del catalogo una linea dedicata esclusivamente a grano duro e tenero nostrano. A spingere le aziende verso questa direzione è stata la maggiore attenzione dei consumatori nei confronti dei prodotti a filiera corta e biologici. In casi come quello di Molino Bigazzi il grano 100% nazionale è stato scelto per avere un controllo maggiore sulla materia prima. Nel 2016 l’80% del grano tenero utilizzato dal mulino proveniva da campi che si trovano in Umbria, Toscana, Marche, Lazio e Abruzzo. Di farine come quelle prodotte da Molini Pivetti viene tracciata tutta la filiera, indicando da quali campi provenga il grano che sarà trasformato dall’industria molitoria. Attraverso il marchio Campi Protetti Pivetti viene commercializzata una farina realizzata da grani provenienti da Bologna, Modena e Ferrara. La stessa iniziativa dedicata alla tracciabilità locale del grano tenero viene realizzata anche da aziende come Mulino Caputo, Molino Rachello, Mulino Padano e Molini Voghera. Molino Rachello è certificato biologico dal 1999 e ha scelto la filiera italiana controllata per poter lavorare un grano di qualità: dai metodi di coltivazione fino alla sua lavorazione. Il mulino trevigiano collabora direttamente con agricoltori in Veneto, Friuli e Toscana. Le aziende agricole biologiche e convenzionali in filiera seguono un disciplinare e metodi di coltivazione concordati insieme ad un agronomo del mulino. Esistono poi farine che riportano sulla confezione una dicitura regionale come la “Farina Veneta” dell’azienda Molino Rossetto che contiene grano veneto al 100%. Un altro esempio è quello di Molino Profili Giuseppe che ha rilanciato un prodotto già parte della tradizione dell’azienda: farina “0” e “00” per la panificazione da grani provenienti dalla Tuscia viterbese.

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Solo una ventina di aziende molitorie italiane hanno una linea di pasta preparata solo con grano duro e tenero italiano

Le farine di grano tenero e le semole di grano duro ottenute da grani nazionali in genere costano leggermente di più rispetto al prodotto commercializzato senza l’etichetta 100% grano italiano. Il costo aumenta quando alla caratteristica della filiera corta si aggiunge la macinazione a pietra, la selezione di grani antichi e la certificazione biologica. In altri casi il costo maggiore dipende anche dai contratti di filiera, che impegnano gli agricoltori a regole precise e prevedono quindi compensi più elevati. Alcune aziende, come Molino Rachello, hanno investito nella certificazione di filiera ISO 22005 che traccia ogni fase della produzione, gli attori coinvolti, l’origine e la territorialità. Questi prodotti hanno più diritto di definirsi 100% Made in Italy? Finché non sarà obbligatorio riportare l’intera filiera in etichetta, bisognerà affidarsi alle strategie commerciali dei produttori o dei distributori che decideranno di indicare o meno l’origine della materia prima. Bisogna però ricordare che la bontà dei prodotti sugli scaffali, è più legata alla capacità di selezione delle farine fatta dai mulini e meno all’origine della materia prima.

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ezio
ezio
16 Maggio 2017 13:03

Alessandro, proprio quelle piccole e medie aziende alle quali lei si riferisce, realizzando piccoli lotti produttivi e molto diversificati, sono già attrezzate con stampanti rapide di etichette e di testine a getto d’inchiostro, facilmente programmabili per numero di lotto e data di scadenza, anche per poche confezioni che passano su di un nastro.
Nessuna difficoltà operativa ne aggravi di costi per chi conosce e gestisce la produzione anche di piccoli lotti, che ripeto ancora devono essere tracciati con schede tecniche e l’origine degli ingredienti utilizzati.
Per grandi produzioni il problema è già risolto in partenza dall’organizzazione programmata ed automatica del lotti di produzione, con stampa preventiva delle etichette, oppure delle confezioni con ampio margine di tempo e modalità esecutive.
Quindi basta solo un pochino di buona volontà, tanta sincerità e sosteniamo il vero Made in Italy che produce ricadute economiche a largo raggio, a partire dagli agricoltori italiani a tutta la filiera produttiva.

Alessandro
Alessandro
16 Maggio 2017 16:21

Ezio, mi riferivo alla sua frase “si attrezzi con etichette e stampanti rapide per indicare da dove viene la principale materia prima che ha impiegato”.
Quindi, da un lato lei ritiene che non ci siano costi aggiuntivi e che chi sostiene il contrario sia “fuori pista o in malafede”. Dall’altro “invita” però le aziende a dotarsi di attrezzature apposite (che immagino quindi vengano regalate, dato che non ci sono costi per le aziende secondo la sua visione). Ma non è questo, ripeto, il nocciolo. Questi sono artifici retorici. Le attrezzature sono solo una parte degli eventuali costi che non sto a ripetere, li ho già elencati nei vari commenti scritti fin qui. Altri non li ho riportati, non è questo il luogo per fare una dissertazione sull’argomento. Ogni nuova procedura e attività introdotte in un’azienda implicano un costo e sostenere che non ci siano costi aggiuntivi non è corretto tutto qua. Vada a leggersi, ripeto, lo studio di impatto sull’indicazione di origine da parte della Commissione Europea. Quello si basa su dati. Non la convince? Legittimo… ma allora presenti uno studio che porti a conclusioni differenti.
Ribadisco prima che arrivino i bizantini di turno: non sono contrario all’indicazione dell’origine. Dico che la “fate troppo facile”, che implica dei costi (per l’azienda e per lo Stato nella remota ipotesi in cui si debbano rendere disponibili ulteriori risorse per la verifica e il controllo) e che tali costi incideranno sul prezzo finale (al netto delle speculazioni).

marita
17 Gennaio 2023 18:42

Ottimo Post!