I cibi fritti sono una delle gioie della vita, anche se  quando sono consumati spesso sono considerati poco salutari per la salute. Una recente ricerca, che ha rivisto e analizzato la letteratura scientifica sull’argomento, li ha riabilitati. Un consumo moderato, unito alla scelta dell’olio più adatto e dei metodi di preparazione più corretti, permettono di inserire la frittura nell’alimentazione di tutti, anche di chi è a dieta.

Il documento, intitolato Il processo di frittura, ricerca e innovazione, è stato elaborato da Fosan, la Fondazione per lo studio degli alimenti e della nutrizione, e sottoscritto dal presidente Francesco Maria Bucarelli. Ecco una sintesi degli aspetti più interessanti.

La frittura è un metodo cottura in cui il trasferimento del calore all’alimento avviene attraverso un grasso nel quale è immerso. È antichissima, e apprezzata in tutte le culture perché conferisce al cibo colore, aroma, consistenza e gusto particolarmente gradevoli. Il risultato dipende da trasformazioni chimico-fisiche complesse, da cui derivano le sostanze desiderate: quelle che, per esempio, rendono croccante l’alimento all’esterno e morbido all’interno.

Ma è possibile anche la formazione di sostanze potenzialmente tossiche e dannose per la salute: composti derivati dall’ossidazione dei grassi (come chetoni, lipoperossidi, aldeide e altri) o dal trattamento alle alte temperature dell’alimento stesso (per esempio l’acrilammide). Il risultato dipende da molteplici fattori come: il tempo di frittura, la temperatura, il tipo di olio, il cibo e la tecnologia utilizzata.

Nonostante la convinzione diffusa che i fritti “facciano male”, gli studi sull’uomo sono scarsi. I dati disponibili non mostrano nessuna relazione tra il  consumo  e la salute, perché quello che veramente conta è  la dieta nel suo complesso.

Ci sono stati molti studi sugli animali – con vari effetti negativi, per esempio la perdita di vitamine A ed E, ingrossamento del fegato… –  ma le prove sono state condotte somministrando quantità esagerate di grassi fritti, riscaldati a temperature  ci elevate e per tempi prolungati. Quindi in condizioni molto diverse da quelle della nostra alimentazione abituale.

Diversa è la questione dell’acrilammide una sostanza  risultata cancerogena in alcune specie animali, che si forma durante la frittura di alcuni alimenti, e anche in seguito a cotture effettuate in  forno e alla tostatura. Il problema dell’acrilammide non riguarda solo le patatine fritte, ma anche biscotti, pane, caffè tostato che formano  quantità variabili di questo composto.

Per ora i dati non hanno confermato se l’assunzione di acrilammide con l’alimentazione si deve ritenere  rischiosa per la salute, ma esiste  un programma di monitoraggio europeo e di studi per stabilire la dose massima accettabile. La comunità scientifica internazionale, a sua volta, ne ha studiato i meccanismi di formazione per mettere a punto le modalità migliori – soprattutto a livello di preparazione industriale degli alimenti – perché se ne sviluppi il meno possibile (per esempio, tenendo sotto controllo la temperatura). Non solo. Siccome il principale responsabile della formazione di acrilammide è l’aminoacido asparagina, è stata proposta l’adozione di cultivar di patate che ne siano povere.

Dai dati raccolti dall’Efsa, l’ente europeo per la sicurezza alimentare, i livelli di acrilammide nel 2008 sono stati inferiori rispetto al 2007, ma non in tutti i gruppi di alimenti. Alcuni, e in primis proprio le patatine fritte (oltre al caffè istantaneo), hanno evidenziato livelli superiori. I risultati dei prossimi anni permetterammo di chiarire meglio l’andamento.

Una cosa però è certa, la qualità dell’olio è fondamentale per limitare le reazioni critiche che si formano durante  la frittura. Gli oli più “stabili” sono i monoinsaturi e più ricchi di sostanze antiossidanti. Perciò numerose ricerche confermano che l’olio extravergine di oliva è il migliore per friggere (si dice che ha un “elevato punto di fumo”), per la presenza di antiossidanti fenolici e la prevalenza di acidi grassi monoinsaturi (ritenuti i migliori per la salute perché tengono a bada il colesterolo “cattivo” (LDL), concausa delle malattie cardiocircolatorie).

C’è però qualche neo. L’olio extra vergine d’oliva trasmette la sua fragranza all’alimento fritto: e questo non sempre è apprezzato dai consumatori. Inoltre, è costoso: se per condire un’insalata ne bastano 10 g a testa, per friggere ne servono circa 200 grammi a porzione. Perciò, solo il 30% degli italiani lo usa nelle preparazioni fritte casalinghe, ed è quasi assente nella ristorazione e nella produzione industriale.

Un’alternativa meno costosa e valida è l’olio di oliva, che ha una più elevata resistenza rispetto agli oli di semi, e non trasmette una fragranza accentuata. Perciò andrebbe valorizzato meglio, con campagne di informazione, visto che gli italiani sono riluttanti a usare un prodotto che si caratterizza come “ olio non extra vergine”.

Oggi gli oli più usati per la frittura sono quello di palma –  soprattutto dall’industria, perché è ricco di acidi grassi saturi e molto stabile all’ossidazione, anche se i grassi saturi favoriscono il colesterolo “cattivo” – e i monoseme di arachide e di girasole, preferiti dalla ristorazione e nelle cucine domestiche. L’olio di arachide è monoinsaturo, ma può causare allergie nelle persone sensibili.

L’olio di girasole è invece polinsaturo, quindi si altera facilmente con le alte temperature (con il maggiore rischio di formare sostanze potenzialmente tossiche), ma è molto usato perché conferisce agli alimenti un colore chiaro, gradito al consumatore. Da notare che gli alimenti fritti in olio d’oliva, meno ossidati e più “sicuri”, hanno in genere colore più scuro.

Esistono anche miscele di oli vegetali studiate per la frittura, che hanno una maggiore resistenza rispetto all’olio di girasole. Sarebbe però necessaria una corretta informazione sulla composizione chimica e sul punto di fumo – anche rispetto all’olio extra vergine d’oliva – per consentire una scelta consapevole al momento dell’acquisto.

Durante la frittura gli alimenti assorbono olio (dal 15% al 40%) e per questo motivo l’olio assume una certa importanza nel calcolo nutrizionale considerando la qualità e la quantità. Per la stessa ragione, sarebbe opportuno indicare nell’etichetta dei prodotti industriali fritti il tipo di olio : quello d’oliva, monoinsaturo, migliora la qualità nutrizionale dei grassi, quello di palma invece a causa  dell’elevato contenuto in acidi grassi saturi è considerato dannoso per la salute cardiocircolatoria.

Per valutare il rischio chimico legato all’ossidazione dei grassi durante la frittura, il parametro di riferimento è il TPS (sostanze polari totali), che rileva l’insieme dei composti presenti. Il ministero della Salute ha stabilito un valore limite di 25g/100 g di TPS. Si tratta però di un parametro  generico, che include sia sostanze potenzialmente dannose che innocue, e che può essere modificato  per diluizione. Secondo il rapporto Fosan, sarebbe opportuno individuare indicatori più affidabili, anche perché il TPS richiede personale qualificato e  in genere non può essere adottato dagli operatori del settore alimentare nelle procedure di autocontrollo basate sui principi dell’HACCP. Il rischio è alto nei ristoranti, dove il carico di lavoro delle friggitrici è discontinuo. Il controllo visivo (colore dell’olio, presenza/assenza di fumo e/o di schiuma) purtroppo non ha alcuna validità scientifica. Anzi: questi parametri in genere segnalano alterazioni  superiori rispetto a quelle stabilite dai limiti di legge. Anche i metodi basati su stick che valutano le variazioni di colore sono imprecisi. Più utili sono gli strumenti digitali in grado di indicare direttamente la percentuale di TPS presenti nell’olio.

La conclusione della relazione Fosan è che  nell’ambito di una dieta equilibrata e variata non c’è un rischio per la salute correlato a un consumo moderato di alimenti fritti. Purché siano ottenuti con buone pratiche di preparazione.

Mariateresa Truncellito