Anche aspettandosi la peggiore delle americanate, non si può visitare Atlanta e saltare il Coca-Cola World,  una sorta di tempio in stile disneyano consacrato alla bibita più famosa dell’universo, “nata” nella capitale della Georgia.Tanto più se quest’anno ricorre il 125° anniversario dell’invenzione di quella che le reclame definiscono la “formula della felicità”. E una volta dentro – dopo aver superato ispezioni e controlli di poco inferiori a quelli dell’aeroporto – ci si rende conto di aver pagato 16 dollari proprio per assistere a un gigantesco spot pubblicitario che dura oltre un secolo (per fortuna, però, per la visita bastano un paio d’ore).

L’intento del “museo” – aperto nel 1990 e trasferito nel 2007 nel Centennial Park, costruito in occasione delle Olimpiadi del 1996 – è convincere i visitatori che la Coke non è semplicemente una bibita rinfrescante come altre, ma la più importante icona della cultura pop a stelle e strisce. In effetti, è vero: se non di cultura, di certo si tratta del simbolo più lampante dell’american way of life e il tentativo di sintetizzarne alcuni valori fondamentali, a cominciare dal culto della giovinezza e dall’orgoglio di essere (o sentirsi almeno un po’, per chi è nato fuori ai confini) americani.

Il super-spot comincia con la ricostruzione della Jacob’s Pharmacy, dove dal 1886 la Coca-Cola era distribuita alla spina (per le bottiglie bisogna aspettare il 1889) come medicinale. Il suo inventore, il dottor John Pemberton, aveva messo a punto la formula dopo vari tentativi, come tonico e corroborante. Allora era uno dei tanti “energy drink” ante litteram, la cui moda era esplosa perché con l’urbanizzazione, la gente cominciava a avvertire il logorio della vita moderna.

Secondo Mark Pendergrast, autore del libro La vera storia della Coca-Cola (Odoya edizioni), nella formula originaria c’era anche estratto di foglie di coca, che sarebbe stato depurato del principio attivo solo qualche decennio dopo (ma la multinazionale nega da sempre che l’alcaloide sia mai stato presente).

La miscela viene ancora oggi “venduta” come uno dei segreti meglio conservati al mondo. In verità, quali sono si sa: caramello, estratto da semi di cola e da foglie di coca, zucchero, caffeina, anidride carbonica, acqua. Non è invece nota l’esatta composizione degli ingredienti raggruppati sotto la voce “aromi naturali” (è impossibile riprodurre l’aroma della Coca-Cola, come di  qualsiasi altro prodotto alimentare, perché l’aroma è ottenuto miscelando centinaia di molecole aromatiche e ogni azienda individua un suo profilo, per cui alla fine tutte le bibite alla cola si assomigliano ma ognuna ha un sapore diverso. Per le dosi e la ricetta storica, si può consultare la voce Coca-Cola di Wikipedia)

E non ha niente di misterioso nemmeno la ricostruzione di una catena preparazione e di imbottigliamento visibile nel museo. Ma il mistero continuamente evocato è quel “quid” che le dà il gusto “inimitabile” (molti fan della Pepsi non sarebbero d’accordo, ma in tutta la Georgia nessun locale la propone come unica alternativa, cosa che invece succede regolarmente in altri Stati d’America).

La vera formula magica, in realtà, è il marketing prodigioso che ha permesso alla Coca-Cola di imporsi agli albori, sbaragliando la concorrenza. Il dottor Pemberton, nonostante il successo, si ritrovò pieno di debiti fino al collo e vendette la formula per 550 dollari ad Asa Candler, un uomo di affari che aveva capito quanto la pubblicità fosse l’anima del commercio.

Ed ecco, nel museo, l’esposizione infinita di memorabilia: vassoi, calendari, orologi e altri gadget da cucina che, da subito, furono immessi sul mercato per indurre gli americani a considerare la Coca-Cola un pane quotidiano, da consumare a ogni ora della giornata, specialmente ai pasti, mentre tutta la famiglia è a tavola o quando ci sono ospiti.

Ma il concetto di happy family e di bevanda sana per grandi e piccoli sono ancora attualissimi: tanto che Ilfattoalimentare.it lo ha già segnalato. Così, se in Italia la “famiglia del Mulino Bianco” è diventata sinonimo di felicità finta e favolistica, di una perfezione che esiste solo nei 30 secondi di uno spot, la “famiglia della Coca-Cola” estende lo stesso concetto a livello planetario: la Coke è bevuta in oltre 200 Stati del mondo (cioè ovunque). 

E pazienza se cartelloni pubblicitari arrugginiti, lamiere contorte e cassette di legno sponsorizzate con il celebre marchio rosso spesso finiscono per diventare materiale da costruzione per baracche negli slums delle metropoli più povere del mondo, dal Cairo a Calcutta, da Marrakech a Istambul, da Nairobi a Rio. Questo nel museo non c’è, anche se non mancano i manufatti più o meno artistici realizzati con lattine, linguette, bottigliette riciclate. Curiosità: la prima lattina di Coca-Cola risale al 1960, la prima bottiglia di PET al 1980.

La famiglia della Coca Cola si manifesta in tutta la sua potenza nella sala dove vengono trasmessi a ciclo continuo gli spot di maggiore successo, quelli storici, quelli internazionali e quelli fatti di cartoni animati (perché i bambini, si sa, vanno pazzi per la Coca-Cola, una volta che l’hanno provata). C’è anche quello, famosissimo in tutto il mondo, girato in Italia nel 1971 sulle colline romane, con i ragazzi che cantano in “perfect harmony” . Altra curiosità: in Italia la Coca-Cola viene importata dal 1927.

Da una sessantina d’anni, cioè fin da quando la Tv era un privilegio di pochissimi americani, la Coca-Cola proclama gli stessi slogan, che non passano mai di moda. “la formula della felicità”, “una Coca-Cola e sorridi”, “Coca-Cola fa andare meglio le cose”. E con ciò, perché scandalizzarsi se Vasco Rossi, negli anni Ottanta, la celebrò in un inno pop che alludeva a una sostanza illegale che, secondo le statistiche, a Milano e in altre città d’Italia è consumata in grandi quantità proprio per “far andare meglio le cose”?

Ma torniamo al Coca-Cola World. Altro che 37 calorie per 100 grammi! In un sorso ci sono un mucchio di valori: amicizia, uguaglianza, allegria, capacità di accettare gli altri come sono. E in un film in 4D (ammettiamo: è molto divertente) un improbabile Indiana Jones scopre che il suo successo è dovuto a 3 “U”, e cioè gusto unico (unique), immutabile (uniformity) e universalmente disponibile.

Lo spottone funziona, eccome: a un certo punto anche una non-fan come la scrivente sente un irresistibile desiderio di Coke. Prontamente soddisfatto nella grande sala dove decine di soda fountains elargiscono – gratis e a volontà – la mitica bevanda in tutte le sue varianti (light, zero, senza caffeina ma anche aromatizzata alla vaniglia e così via) più altre 60 bibite prodotte in tutto il mondo (per l’Italia, Beverly).

Il giro si conclude con una bottiglietta omaggio del 125° e l’obbligatorio passaggio nell’enorme shop – dalla t-shirt al cavatappi, dall’orologio da parete alle matite, da servizi da tavola completi ai portachiavi – per un gadget che ti ricordi che è sempre il momento giusto per bere una Coca-Cola. Soprattutto in Usa, dove l’acqua del rubinetto sa di cloro e quella minerale spesso è molto costosa.

E se oggi le voci sulla cocaina e sulla possibilità che la Coke dia dipendenza sono solo pettegolezzi, non c’è alcun dubbio che si tratta di una bibita eccitante e calorica, per la ricchezza di caffeina e zuccheri (anche se l’azienda si difende sostenendo che è simile a un succo di frutta), e se non è vero che è capace di sciogliere una moneta (e quindi anche le pareti dello stomaco), la presenza di acido cloridrico favorisce la perdita di calcio. Tutto ciò la rende quindi altamente sconsigliabile per il consumo quotidiano, in particolare per bambini e adolescenti.

Speriamo che l’impegno preso con Michelle Obama – che si sta molto adoperando per migliorare la dieta dei suoi concittadini (vedi ilfattoalimentare.it: L’America si mette a dieta. Meno calorie per tutti) venga mantenuto dalla Coca-Cola. Ma questo sì, almeno per il momento, resta un mistero inespugnabile.

Mariateresa Truncellito

Foto: Truncellito; Photos.com