La pubblicità del cibo spazzatura è da tempo nel mirino di chi cerca di individuare le cause primarie dell’aumento di obesità tra bambini e ragazzi. Un nuovo, recente studio sostiene chi ritiene gli spot la causa maggiore dei danni e ne chiede, se non proprio il divieto, almeno una severa limitazione.

 

I ricercatori dell’Università del Missouri e del Medical Center dell’Università del Kansas (USA) hanno dimostrato che la pubblicità fa più danni a chi ne avrebbe meno bisogno: i ragazzi obesi.

Per realizzare lo studio sono stati reclutati dieci ragazzi obesi e dieci normopeso, di età compresa tra i 10 e i 14 anni, ai quali hanno fatto vedere 60 loghi di junk food e 60 loghi di prodotti non alimentari, registrando contemporaneamente la loro attività cerebrale tramite risonanza magnetica funzionale.

 

Si è così visto che nei ragazzi obesi si attivano maggiormente le aree della ricompensa, implicate nei fenomeni di dipendenza alimentare e non, mentre nei soggetti normopeso si accendono le aree cerebrali collegate all’autocontrollo.

 

Le diverse attivazioni sembrano dimostrare che i giovani obesi siano molto più vulnerabili al martellamento delle pubblicità alimentari, e che reagiscano aumentando il consumo di cibi ricchi di zuccheri e grassi.

Amanda Bruce, la coordinatrice del lavoro studio pubblicato sul Journal of Pediatrics, ha sottolineato che per aiutare questi ragazzi a perdere peso bisognerebbe rinforzare il loro autocontrollo, anche con terapie cognitivo-comportamentali.

 

Lo studio segue quello realizzato nel 2011 dalla ricercatrice inglese Emma Boyland, in forza presso l’Università di Liverpool, che ha analizzato le reazioni dei bambini dai 6 ai 13 anni alla visione di spot televisivi sui cibi, trasmessi all’interno di un cartone animato.

 

I risultati sono stati inquietanti: i bambini abituati a guardare spesso la televisione sono più esposti al rischio di sviluppare cattive abitudini alimentari (consumare meno frutta e verdura e più junk food), poiché sono più propensi a chiedere i prodotti reclamizzati, piuttosto che frutta e verdura raramente oggetto di comunicazione pubblicitaria (è superfluo ricordare quanto sia esagerata la presenza di snack, dolciumi e merendine nella programmazione televisiva).

 

Secondo il Physicians Committee for Responsible Medicine, un comitato di esperti che si batte per imporre limiti severi alle pubblicità alimentari, bambini e ragazzi statunitensi sono esposti a 7.600 spot ogni anno, quasi nessuno dei quali riguarda frutta e verdura.

Inoltre le aziende spendono circa 10 miliardi di dollari ogni 12 mesi, per finanziare le pubblicità rivolte ai più giovani con spot che, nel 98% dei casi, riguardano alimenti ricchi di zuccheri e grassi.

 

In base alla ricerca “In bocca al lupo”, commissionata da Coop qualche anno fa all’Osservatorio di Pavia e all’Università di Roma Tre, focalizzando l’attenzione sulla fascia protetta, in Italia un quinto della pubblicità televisiva è rivolta ai minori, con una presenza massiccia nei canali con target spiccatamente giovane.

 

In Italia durante i programmi televisivi per i più piccoli si raggiunge il poco invidiabile record europeo di 250 ore annue di comunicati pubblicitari; e con una media di tre ore diarie passate davanti al piccolo schermo, un bambino può vedere fino a 90 spot alimentari al giorno. Si tratta di una pubblicità di cibi ogni cinque minuti, a differenza dei coetanei europei che ne vedono una ogni dieci minuti.

 

Agnese Codignola

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