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Il problema dell’indicazione sullo stabilimento di origine sull’etichetta non è stato ancora risolto. Prossima riunione 11 dicembre 2014

Il Fatto Alimentare ha sempre evidenziato l’importanza della norma italiana che prescrive l’indicazione sulle etichette alimentari della sede dello stabilimento di origine e/o confezionamento. Si tratta di una regola antica – a suo tempo accettata dalla Commissione europea per facilitare la gestione di richiami dal mercato urgenti, relativi a prodotti nocivi all’organismo. Questa indicazione rischia di sparire. Non è servita la petizione on line promossa qualche mese fa dal sito Io Leggo l’Etichetta e nemmeno l’interpellanza urgente presentata alla Camera dei Deputati dal Movimento 5 Stelle per mantenerla in vigore. Il Fatto Alimentare ritiene importante insistere con questa richiesta per agevolare il lavoro dei sanitari quando si trovano ad affrontare una seria emergenza alimentare.

Un esempio verosimile riguarda un’eventuale intossicazione da botulino. Dopo la visita al pronto soccorso dallo sventurato consumatore e la rassegna dei cibi assunti, occorre immediatamente identificare il prodotto e contattare lo stabilimento di produzione per allertare i cittadini. A questo punti ci sono due possibilità: risalire subito allo stabilimento di origine indicato sull’etichetta, oppure rintracciare lo stabilimento interpellando l’azienda che ha apposto il marchio sulla confezione e che magari ha la sede all’estero. Se il problema accade di sabato o domenica sarà necessario aspettare ore e forse  giorni e il botulino potrebbe provocare altre vittime e forse dei morti. Non si tratta di un evento così improbabile e la Direzione generale per la sicurezza degli alimenti e della nutrizione del Ministero della salute sa di cosa stiamo parlando e sa che il rischio c’è ed è serio. In Italia l’allerta botulino è scattata tre volte negli ultimi 16 mesi!

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Il secondo motivo per cui lo stabilimento di origine deve essere riportato sull’etichetta è quello di dare la possibilità ai consumatori di scegliere. Ciascuno ha il diritto di privilegiare i prodotti confezionati in Italia per favorire il mantenimento di posti di lavoro a livello locale e contribuire alla lotta contro le delocalizzazioni. Se anche in Italia prevarrà la “logica” delle multinazionali, potremo trovare sugli scaffali alimenti con una forte caratterizzazione italiana ma prodotti altrove. Il problema è urgente perché se il Governo italiano non provvederà subito a notificare questa norma alla Commissione europea, dal 14 dicembre 2014 (data di applicazione del regolamento UE n.1169/2011) l’indicazione sull’etichetta della sede dello stabilimento di produzione o confezionamento non ci sarà più.

 

Riportiamo questa lettera che ci ha spedito Emilio Senesi dopo una riunione che si è tenuta il 28 novembre 2014 al Ministero dello sviluppo economico che fa il punto della situazione 

Sono uno dei due rappresentanti del CNCU (Consulta Nazionale Consumatori Utenti che riunisce le Associzioni dei Consumatori attive sul piano nazionale) al tavolo tecnico sull’etichettaggio aperto al MISE. Si è tenuta una riunione il 28 novembre e se ne terrà un’altra l’11 dicembre. Nel corso della riunione del 28/11 ho presentato la mia posizione a nome del CNCU. Tra gli altri argomenti, sono intervenuto sul tema dell’indicazione dello stabilimento di produzione. Vi riporto qui sotto il parere espresso, pensando di fare una cosa utile al dibattito in corso. Consultazione su DPCM di modifica del D. lgs 109/92REG 1169

In merito al problema dell’indicazione dello stabilimento in cui avviene la lavorazione/confezionamento finale, si ribadisce che l’indicazione dello stabilimento è ritenuta un elemento importante nella scelta di un prodotto alimentare. La mancata indicazione dello stabilimento potrebbe essere un fattore discriminante per la non scelta di un certo tipo di prodotto a parità di prestazioni e contenuto. L’indicazione dello stabilimento è anche considerata come un fattore di credibilità per la produzione nazionale, di fiducia nel sistema della rintracciabilità e di certezza nei controlli degli organi di vigilanza.
A nostro modesto parere, si potrebbe proporre un marchio promozionale del “made in Italy” prendendo lo spunto dall’articolo 30 del decreto-legge n. 133 convertito nella legge n. 164/2014, che prevede l’elaborazione di un piano per la promozione straordinaria del made in Italy e l’attrazione degli investimenti in Italia. Le imprese e gli operatori alimentari che vorranno aderire a questo marchio promozionale, dovranno inserire l’indicazione dello stabilimento di lavorazione/confezionamento situato in Italia. Se i Ministeri interessati vorranno intraprendere questa strada, il CNCU e le associazioni dei consumatori daranno un convinto appoggio.

Emilio Senesi

© Riproduzione riservata

Foto: iStockphoto.com

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mauro
mauro
16 Dicembre 2014 08:48

A parte l’essere o meno d’accordo con indicare lo stabilimento di produzione in etichetta vorrei evidenziare un paio di aspetti.
Uno, legato a quanto scritto nell’articolo, dove si afferma che senza l’indicazione dello stabilimento di produzione in etichetta sarebbe praticamente impossibile, soprattutto di sabato e di domenica, far partire un’allerta. È chiaramente un’affermazione falsa e tendenziosa! Intanto non è il consumatore né l’ospedale a contattare l’azienda “incriminata”. Se mai sarà l’ASL di competenza. E in ogni caso col vasetto in mano, che riporta tutte le informazioni obbligatorie, è possibile risalire a tutte le informazioni necessarie. Non è detto che tutte siano “in chiaro” per il consumatore, ma lo sono per le autorità competenti e ancora di più per l’azienda produttrice. Quindi, se si conferma la presenza di botulino in un vasetto, si prende il numero del lotto, si chiama l’azienda (che magari ha la sede in Paraguay), e quella, con le indicazioni in etichetta, sarà in grado di dire dove e quando è stato prodotto il vasetto.
Senza contare che sabato o domenica non centrano nulla, visto che tutte le aziende hanno una reperibilità per le emergenze, comprese le aziende ASL!
Ma la questione è a monte. Cioè legata a cosa il consumatore sa o crede di sapere di un prodotto. È stato prodotto in Italia. Ma le merci da dove arrivano? E un prodotto fatto in Italia è meglio o peggio di uno fatto in Francia? Oppure un prodotto fatto in Italia con merci estere è meglio o peggio?
Di fatto il consumatore non conosce la differenza tra DOP, IGP, Prodotto Tradizionale. Non sa che per moltissime materie prima l’Italia non è autosufficiente. Non sa che se tutti volessero prodotti fatti in Italia con materie prime italiane nessuno sarebbe in grado di sostenere la domanda (carni bovine, suine, pollame, grano, caffè, giusto per citare qualcosa)
Qualcuno sta, malevolmente, spingendo verso una campagna autarchica per la quale l’Italia non è in grado di soddisfare la richiesta.
Molti non sanno che i prosciutti (crudi) cd “nostrani” sono prodotti con cosce di suini nati all’estero e portati in Italia dopo lo svezzamento (21gg). Allevati e macellati in Italia, quindi non appartenenti ai circuiti DOP. Spesso sono più buoni dei prosciutti DOP (es Parma). E costano meno. La futura etichettatura (reg 1337) prevederà la dicitura “allevato e macellato in Italia”. Il consumatore, nella sua ignoranza sarà contento. Perché il problema è che continuando così si demonizza il prodotto estero, indipendentemente da tutto, per premiare quello Italiano, anche se fa schifo. Quindi, ad oggi, se il consumatore leggesse “nato in Danimarca, allevato e macellato in Italia”, probabilmente non lo comprerebbe. Ma solo ed esclusivamente per una campagna mediatica malata e che vuole vendere fuffa. Il problema è che ci sta riuscendo!