Anche se l’attenzione dei media internazionali è concentrata sui tentativi di mettere a punto sostituti accettabili della carne, qualcuno sta lavorando anche su quelli del pesce, visto l’inarrestabile impoverimento dei mari e i molti problemi generati dall’acquacoltura. Le centinaia di migliaia di salmoni atlantici fuggiti da un allevamento situato nelle acque del Pacifico, con le inevitabili criticità ce i danni che ne conseguono, dimostrano la necessità di portare avanti  progetti  di questo tipo.

L’incidente, raccontato dal New Yorker, è avvenuto il 22 agosto presso le vasche della Cooke Aquaculture, una delle più grandi aziende americane di allevamento di pesci per il consumo umano, situata sulle rive della Cypress Island, isola al largo di Bellingham, città dello stato di Washington quasi ai confini con il Canada, e appartenente alla tribù di nativi americani chiamati Lummi. A causa della rottura di strutture vecchie di quasi vent’anni e corrose dalla ruggine, la cui riparazione era prevista per il prossimo autunno (dopo il raggiungimento dell’età adulta dei pesci), in poche ore circa 300 mila salmoni atlantici si sono ritrovati in mare aperto e hanno iniziato a risalire i fiumi della baia, ricca di isole, insenature e zone selvagge difficili da raggiungere. I piani di emergenza (in particolare il Fish Escape Prevention Plan, messo a punto con le autorità) sono scattati solo qualche giorno dopo, perché molti degli addetti erano ancora in vacanza, e nel frattempo i salmoni atlantici hanno continuato a viaggiare per l’Oceano Pacifico.

Negli Usa 300 mila salmoni atlantici sono scappati da un allevamento nell’Oceano Pacifico

I Lummi, per i quali il salmone del Pacifico è sacro, si sono subito mobilitati ma, purtroppo, con scarso successo, perché il danno era stato già fatto, e le conseguenze saranno misurabili solo tra qualche mese o un  anno. Oggi, infatti, nessuno sa che cosa succederà ai salmoni atlantici e a quelli del Pacifico, se i primi abbiano qualche infezione o anche solo qualche ospite (batteri, funghi o virus) pericoloso per i cugini selvatici, e  se ci saranno conflitti  per il cibo e/o nella riproduzione. Non a caso l’Oregon, la California e l’Alaska vietano la posa di vasche in mare aperto, ma lo stato di Washington no. E ora si trova a fare i conti con la più massiccia perdita di pesci allevati mai verificatasi.

Il disastro, d’altronde, conferma l’importanza di proseguire con la ricerca di fonti alternative. Una delle vie è quella dei surrogati, ottenuti per lo più con farine di pesce o ritagli di scarto aromatizzate, colorate e modellate in base alle richieste (qualcosa di simile al pink slime, la carne separata meccanicamente a cui si dà la forma di tagli classici degli animali). Molti non lo sanno ma già adesso in Giappone parte del surimi commerciale è confezionato così, e in tutto il mondo circolano polpe di aragosta e granchio che non hanno mai visto un crostaceo. Il problema principale è il gusto che  non viene giudicato soddisfacente, e non a caso questi prodotti non hanno molto successo.

 

Gran parte del surimi è prodotto con farine e scarti di pesce aromatizzati

Ma la via a cui si guarda con più interesse è quella del pesce in provetta, derivato dalle cellule staminali (di pesce), analogo alla carne. Il significativo vantaggio, rispetto alla carne è che  le cellule staminali di pesce per crescere non richiedono temperature controllate e in generale si sviluppano meglio e con minori accorgimenti tecnici.

L’azienda più avanti nella ricerca è la Finless Foods, start up fondata da Brian Wyrwass e Mike Selden, due giovani biologi che stanno velocemente portando avanti gli esperimenti con le staminali di specie come: branzino, la carpa, la tilapia, la sardina, e stanno programmando la prova sui tonni. Nei giorni scorsi, racconta il quotidiano The Atlantic, hanno mostrato i risultati a un Demo Day svoltosi a New York, con la speranza di attrarre nuovi investimenti. Dalla loro, i due fondatori hanno un approccio del tutto ecosostenibile: si servono solo di carne proveniente da pesci appena morti e tenuti in opportune condizioni oppure morenti, concessi dagli acquari della zona di San Francisco, dove è la sede della loro start up (all’interno di uno dei più grandi incubatori di aziende del paese, l’Indie Bio), e in generale della California.

L’aspetto più critico incontrato da Finless Foods è legato alla consistenza della carne

Gli aspetti più complicati, hanno raccontato Wyrwass e Selden, al demo day, riguardano la struttura tridimensionale della carne, che non sarebbe ancora ottimale. Meno problematico, invece, l’aspetto organolettico: odore, colore, aspetto e perfino rumore – cioè consistenza – quasi indistinguibili dall’originale sarebbero a portata di mano.

È presto per dire se il futuro sarà fatto anche di pesce artificiale, oltre che di carne artificiale, ma è certo che questi studi rappresentano un contributo importante alla ricerca sul futuro dell’alimentazione sostenibile dei 9 miliardi di esseri umani che popoleranno la terra nel 2030.

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