In India 175 milioni di persone stanno già oggi nutrendosi grazie a raccolti che depauperano le risorse, perché eccedono quella che sarebbe la normale capacità produttiva del territorio.

In Cina la stessa cosa vale per 130 milioni di persone; nel paese nel 2011 sono stati importati, solo per i mangimi degli animali, 56 milioni di tonnellate di soia su un totale di 70 consumati.

 

È proprio partendo da questi numeri che Lester Brown, uno degli ambientalisti più importanti nel mondo, fondatore e direttore dell’Earth Policy Institute di Washington, ha scritto il suo ultimo libro, “9 miliardi di posti a tavola“, che presenterà a Milano (al Forum internazionale organizzato dal Barilla center for food & nutrition il 29 novembre alle 11 all’Università Bocconi e alle 17 alla Sala Sforzesca del Castello) e a Bologna (il 30 novembre alle 14,30 a Palazzo Hercolani) questa settimana.

Dopo aver pubblicato molti libri sul cambiamento climatico e su altre tematiche ambientali, Brown rivolge la sua attenzione più specificamente a quello che considera il più urgente dei problemi dell’umanità: il cibo.

 

Spiega Brown a Il fatto alimentare: «In questo mondo dominato dalla scarsità di alimenti, la capacità di coltivare, produrre e vendere è sempre più una leva politica, perché chi ha il cibo ha il potere. Osservando le cose al contrario ci sono milioni di persone che già oggi non hanno accesso a quantità di cibo indispensabili alla sopravvivenza, e che iniziano a vedere sempre più spesso la rapina delle loro terre.

Bisogna rendersi conto che queste persone non staranno per sempre ad aspettare che le cose cambino: vorranno cambiarle esse stesse, e vorranno farlo talvolta seguendo modalità oggi imprevedibili. Ecco perché il problema della scarsità di cibo, ancora prima che etica, è una questione di sicurezza».

 

Brown, che ha volutamente fondato il suo Istituto di studi indipendenti a Washington per cercare di esercitare il massimo potere di lobbying dove vengono prese le decisioni, spiega anche perchè i governanti e i politici in generale sembrano sottovalutare sistematicamente questo problema con una miopia sorprendente.

«I governi – continua Brown – ragionano con logiche vecchie, basate esclusivamente su valutazioni economiche e di mercato che storicamente hanno avuto un senso, ma che oggi risultano superate.

Non solo: mediamente i decisori non sanno nulla di scienze della terra, di climatologia, di agricoltura e di tutto ciò che ha a che fare con la capacità del pianeta di nutrirci. Quindi, anche quando analizzano la cosa, sembrano non avere gli strumenti per capire».

 

Siamo di fronte a un quadro assai poco rassicurante, da cui però si può uscire, secondo Brown, se si lavora su due fronti contemporaneamente: quello culturale, importantissimo, ma anche quello economico. Come? Brown stesso cita come esempio una delle azioni più urgenti:

«Pensiamo ai campi coltivati a mais per la produzione di biocarburanti: una follia. Tra il 2005 al 2011 negli Stati Uniti le tonnellate di mais e altro destinate a questo uso sono passate da 41 a 127 milioni, e oggi assorbono circa un terzo dei raccolti.

È giunto il momento di incentivare la riconversione e di penalizzare la produzione di carburanti che oltretutto non sono meno inquinanti di quelli derivati dai fossili, considerando l’impronta globale di CO2 della filiera produttiva».

 

Diminuire la produzione di biodiesel a favore di quella di cibo, incentivando parallelamente le energie pulite, servirebbe anche per intervenire sul più importante di tutti i problemi legati al cibo: quello del cambiamento climatico. Spiega ancora Brown: «L’opinione pubblica non ha la percezione di quanto la produzione di cibo dipenda dal clima, ma basta vedere cosa succede dopo ogni estate particolarmente calda come quella che abbiamo appena trascorso. I raccolti crollano rispetto alle previsioni, i prezzi schizzano in alto e la speculazione avanza».

 

Una cosa è certa, i Paesi che hanno iniziato da tempo a fare i conti con le conseguenze del cambiamento climatico sulla produzione alimentare, sono anche quelli che stanno facendo incetta di terra in altre nazioni (Land Grabbing) un fatto che preoccupa moltissimo Brown: «Il problema è che si tratta sempre di contratti perfettamente legali, e non è facile invertire la tendenza, soprattutto nei Paesi dove i governi, quando ci sono, risultano  deboli».

Per citare uno dei tanti numeri presenti nel libro, secondo la Banca Mondiale nel 2010 ci sono state 464 acquisizioni di terreni da parte di investitori esteri, per una superficie totale che è paragonabile a quella coltivata a grano e mais negli Stati Uniti e in Canada.

 

La cosa va avanti anche solo con l’affitto: in Etiopia, per esempio, un acro di terreno costa meno di un dollaro all’anno. Per contrastare questa vergogna, conclude Brown, bisogna «aiutare i governi dei Paesi più poveri e instabili a combattere il Land Grabbing anche, se necessario, con incentivi economici e, parallelamente, cambiare la cultura degli stati che sostengono la rapina delle terre.

Solo così sarà possibile soddisfare le necessità alimentari di una popolazione che tra pochi anni raggiungerà i 9 miliardi di individui e deve imparare al più presto a creare cibo in modo diverso da quello che secoli di abbondanza l’hanno abituata».

 

Agnese Codignola

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