Dimmi cosa mangi da piccolo e ti dirò cosa sarai da grande: numerosi studi sembrano confermare che l’alimentazione nelle prime fasi della vita svolga un effetto preventivo e costitutivo nel futuro dell’individuo. Anche a lunghissimo termine. 

 

È il tema della lectio magistralis di Marcello Giovannini, presidente della Società italiana di nutrizione pediatrica, che ha aperto il Workshop dedicato all’alimentazione infantile durante il Nutrimi, VI Forum internazionale di nutrizione pratica 2012, a Milano il 14 e 15 marzo scorsi.

 

«La prima domanda che si pone alla nascita di un bambino è “Quanto pesa?” Ma in realtà è più importane chiedere “Cosa e come mangia” perchè in base all’ipotesi del “programming nutrizionale” (parola inglese che indica gli interventi alimentari in gravidanza, allattamento, svezzamento in grado di avere un impatto sulla salute a lungo termine) sono determinanti le scelte alimentari dei primi mesi, e addirittura della fase fetale.

 

Esistono infatti periodi critici nello sviluppo del bambino – dalla gravidanza ai primi anni – in cui l’alimentazione può davvero condizionare la salute del futuro adulto. I nutrienti potrebbero provocare delle alterazioni nell’espressione dei geni e, poi, sulla capacità di utilizzarli».

 

In altre parole: secondo gli studi dell’epigenetica, il nostro patrimonio genetico si adatta all’ambiente – in questo caso gli alimenti – con vari risultati in positivo o in negativo. «Un esempio noto è quello dell’osteoporosi: il patrimonio di calcio depositato sulle ossa si costruisce entro i 20 anni, e la sua “ricchezza” o “povertà”- condizionata da un’alimentazione adeguata, ricca di latte e derivati – è un elemento chiave per la donna dopo la menopausa».

 

 L’ipotesi programming 

Tra gli studi in corso che mirano a verificare la validità dell’ipotesi del programming nutrizionale, c’è il Progetto EARNEST, una ricerca europea che punta i riflettori sul rischio di malattie cardiovascolari e tumori, lo sviluppo delle funzioni cerebrali, il rischio obesità e allergie, la salute delle ossa.

 

Secondo l’ipotesi di Barker, la malnutrizione – per difetto o per eccesso – e l’alterazione dell’equilibrio endocrino durante la fase fetale modificano la struttura e il metabolismo dell’individuo e lo rendono predisposto in età adulta a obesità, diabete e malattie cardiovascolari.

 

Ancora, da studi sui neonati prematuri, è emerso che la combinazione peggiore per la salute futura sembra essere quella data da una bassa assunzione di nutrienti nella vita fetale, associata a una rapida crescita di peso nelle prime due settimane dopo la nascita (quando si cerca di favorire lo sviluppo dei bimbi pretermine che, per ovvie ragioni, sono sottopeso). Tutto ciò si associa a insulino-resistenza, e quindi diabete, durante l’adolescenza.

 

«Gli studi sul programming suscitano molto interesse – sottolinea Giovannini- ma al momento non si può essere certi di una associazione diretta con la dieta. Per questo motivo non sono state ancora formulate raccomandazioni ad hoc per la donna in gravidanza e per i neonati». 

 

Non solo nutrienti

Continua Marcello Giovannini: «Non ci sono solo i nutrienti: durante le prime fasi della vita e nello sviluppo fetale gli esseri umani sono più vulnerabili agli effetti dannosi delle sostanze chimiche, anche ai livelli di esposizione considerati sicuri per la popolazione adulta. I problemi per la salute possono quindi manifestarsi dopo molti anni, per esempio a causa di danni sul patrimonio genetico o di alterazione nella funzione riproduttiva». Come dire: un alimento ritenuto adeguato per i grandi, può non essere ottimale per l’alimentazione dei più piccoli.

 

Questo concetto non sempre è chiaro ai consumatori che, oltre a seguire retaggi della tradizione superati dalle evidenze della moderna scienza della nutrizione (vedi l’errata convinzione “bambino grasso è sano”), a volte sono confusi anche dai messaggi pubblicitari dei produttori di alimenti, come è successo nella recente diatriba sulla pasta “I piccolini” di Barilla.

 

«Gli alimenti non specifici per l’infanzia potrebbero nascondere rischi che non conosciamo o che non sappiamo stimare, sottolinea Giovannini. La legge tutela anche i consumatori adulti garantendo prodotti controllati, ma la vulnerabilità dei bambini richiede criteri di sicurezza specifici. I loro meccanismi di assorbimento sono più efficienti, mentre risultano più “immaturi” quelli di eliminazione delle scorie, con una ridotta funzionalità del fegato e dei reni».

 

L’allattamento al seno: meglio per più di tre mesi

Gli effetti a lungo termine dell’allattamento al seno sono attestati da numerose ricerche. In particolare, una metanalisi del 2007 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha incrociato i risultati di vari studi ha calcolato, oltre alla diminuzione del rischio di ipertensione e di colesterolo totale e LDL (“cattivo”) in età adulta, una riduzione del rischio sovrappeso e obesità che va dal 16 al 28%, a seconda degli studi, e del diabete di tipo 2 dall’11 al 55%.

 

Altre due recenti metanalisi evidenziano come l’allattamento al seno per almeno tre mesi riduce maggiormente il rischio di sviluppare diabete di tipo 1 in età giovanile (27%) rispetto a una durata di allattamento inferiore ai 3 mesi (solo 19%). 

 

L’ipotesi proteica

 Posto che il latte materno offre la massima protezione nei confronti delle allergie, degli squilibri metabolici e del sovrappeso – anche per l’effetto di “autoregolazione” dei meccanismi della fame e della sazietà del piccolo, oltre che per la sua composizione ottimale – cosa succede se il bambino viene alimentato con il latte in polvere?

 

«Vent’anni fa il latte destinato ai neonati era ricco di proteine. I bimbi crescevano rapidamente, con grande soddisfazione della mamma – continua Giovannini-. Gli studi degli anni Duemila hanno dimostrato che un elevato incremento di peso nei primi 24 mesi di vita è un fattore predittivo di sovrappeso in età scolare e per lo sviluppo di diabete di tipo 1. I dati attuali indicano al contrario che le formule a più basso contenuto proteico determinano una curva di crescita simile a quella dei bimbi allattati al seno. E quindi le composizioni sono state riviste».

 

Per questa ragione, il latte vaccino, che ha un contenuto di proteine più alto del latte materno (è destinato alla crescita di un vitellino!) è il meno indicato per i neonati e non deve essere dato prima dei 12 mesi, secondo quanto consigliato dalle società di pediatria internazionali. Un atteggiamento ancora più prudente suggerisce di rimandare l’introduzione del latte vaccino addirittura dopo i 24 mesi, ma al momento non ci sono evidenze scientifiche a sostegno di questa tesi.

 

Lo svezzamento: mai abbassare la guardia

Studi recenti suggeriscono che sono soprattutto le proteine assunte con il latte – e non con carne e cereali – che stimolano la secrezione di insulina e IGF-1 in età pediatrica, e quindi il rischio di obesità e sovrappeso. «Tuttavia, l’attenzione deve essere più generale, perché i primi anni di vita, e in particolare i primi 36 mesi, sono fasi particolarmente critiche».

 

«Gli alimenti da proporre al bambino devono essere scelti con cura perché possano rispondere in maniera ottimale alle esigenze nutrizionali e di sicurezza specifiche di un organismo in crescita e, nello stesso tempo, vulnerabile. Al momento – continua Giovannini – non si può escludere che anche l’apporto proteico negli anni successivi sia critico per il peso. E ci sono anche vari errori durante lo svezzamento che possono incidere come la precoce sospensione dell’allattamento al seno (prima del quarto mese), la precoce introduzione di cibi solidi e di latte vaccino, squilibri nell’assunzione di altri macronutrienti, come gli acidi grassi polinsaturi». 

 

Mariateresa Truncellito

foto: Photos.com

 

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